Le dieci giornate di Brescia

Brescia è stata battezzata "Leonessa d'Italia". Infatti nell'ambito del Risorgimento Italiano, durante il biennio di agitazione 1848-1849, la città si distinse per aver resistito coraggiosamente a lungo contro il nemico, durante le "Dieci Giornate". Trentacinquemila bresciani hanno il merito di aver resistito per molto tempo, armati di tremila fucili, contro forze ben più numerose ed esperte, per un solo motivo: l'unanime partecipazione alla lotta per la libertà. Brescia diventò ben presto il simbolo dell'amor patrio. Aleardi e Carducci diedero per primi a Brescia il titolo di "Leonessa d'Italia" . Analizziamo ora la storia delle "Dieci Giornate":

IL CONTESTO STORICO

Parlando del Risorgimento italiano è necessario osservare tre grossi schieramenti che ne divennero i principali protagonisti:
- La massa contadina sosteneva Radetzki, desiderando la rioccupazione austriaca;
- La massa urbana, borghesi e gli operai sostenevano le rivoluzioni, attraverso le quali si sarebbe potuto conquistare l’unità d’Italia;
- Il Piemonte ed il suo esercito che mirava ad unire l’Italia, ma frenava i movimenti della massa urbana per il timore che si diffondesse una guerra di liberazione volta alla democrazia ed alla repubblica.

Alla ripresa delle ostilità nel 1849 i comitati lombardi a Torino ottennero che una colonna di partigiani, comandata dal bergamasco Camozzi, penetrasse nella regione dei laghi e si spingesse a Brescia distribuendo armi e suscitando ribellioni. Così Camozzi partì il 20 marzo e, dopo aver occupato varie città lombarde, giunse a Brescia, dove il fiduciario di Torino, Gualla, aveva già tutto predisposto e dove poteva contare su una banda di 350 uomini armati comandata da Don Pietro Boifava.
Questo sacerdote, parroco di Serle, era rozzo nel parlare, piuttosto sporco nel vestire e non aveva più il carattere sacerdotale, ma poteva camminare tre giorni senza mangiare e bere ed invocava lo Spirito Santo prima di sparare.
Quando Camozzi e Boifava si incontrarono, Carlo Alberto aveva già perduto la battaglia di Novara, ma a Brescia non si era ancora al corrente della notizia, si era convinti che i piemontesi, vincitori, fossero in arrivo. Mentre Gualla aspettava informazioni più precise prima di scatenare la ribellione, il popolo insorse anche senza i suoi ordini in seguito ad una multa che gli austriaci imposero alla città. La rivolta iniziò il 23. Proprio il giorno della sconfitta di Novara, gli austriaci diffusero la notizia, ma i bresciani non si arresero. Essi s’impadronirono della città, obbligando la guarnigione austriaca a rinchiudersi nel castello, e resistettero anche agli aiuti tedeschi provenienti da Mantova, infliggendo loro gravi perdite. Brescia resistette per dieci lunghe giornate, nella speranza di ricevere aiuti piemontesi nonostante la sconfitta di Novara, finché giunse il maresciallo Haynau; egli intimò la resa, ma il popolo rispose suonando le campane e imbracciando i fucili. Così gli austriaci fecero piovere dal castello alla città le bombe e faticosamente indussero il popolo alla resa.
La popolazione ebbe un migliaio di morti e gli austriaci ne contarono cinquecento, più di quanto fosse costata la battaglia di Novara.

IL DIARIO DEI FATTI

La situazione di agitazione, come già abbiamo avuto modo di comprendere, aveva ormai creato un comitato segreto di insurrezione e precipitò improvvisamente il 23 marzo quando le autorità militari si presentarono in Piazza Loggia ad intimare il pagamento di una multa. Questa riscossione agì come scintilla e fece esplodere tutto l’odio presente nei bresciani: i cittadini tutt’ad un tratto strapparono le insegne austriache ed assalirono una pattuglia austriaca che stava salendo verso il Castello, scatenando la rivolta generale. Al grido << Morte ai barbari >> tutti i bresciani scesero nelle strade alla ricerca di un’arma qualunque (sassi, bastoni, fucili ...) ed intanto la guarnigione austriaca si rifugiava nel Castello preparandosi al contrattacco al comando del capitano Leschnke.
Già nella stessa notte Brescia subì un primo bombardamento, ma per i cittadini, euforici, fu come se fosse giunta una festa da lungo attesa: tutte le campane iniziarono a suonare; uomini, donne, vecchi e giovani accorsero nelle strade per rispondere al fuoco nemico, rizzare barricate e per spegnere gli incendi provocati dalle bombe. Venne allora creato un comitato di pubblica sicurezza sotto la direzione del Prof. Luigi Contratti e del dott. Carlo Cassola, mentre si stava provvedendo ad organizzare la difesa della città. Dal monte al piano i patrioti accorsero ad affiancare Tito Speri ed i suoi volontari, appostati presso Sant’ Eufemia. Dalle pendici dei Ronchi, invece, difendeva la città il prode curato di Serle, don Pietro Boifava.
Il 25 marzo si sparse la notizia che le truppe imperiali, al comando del generale Nugent, si stavano dirigendo da Mantova verso Brescia ed i bresciani si mostrarono subito pronti ad accoglierle, Infatti, benchè inferiori di numero ed in gran parte inesperti al combattimento, i cittadini si slanciarono contro il nemico con molto impeto e coraggio, al punto che perfino Tito Speri li dovette richiamare alla prudenza. Essi combattevano e morivano lietamente. Curiosa è l’ultima frase di un Bresciano colpito da una pallottola:
- Me fortunato! - Ho l’onore di morire per primo sul campo di battaglia! – Ed un compagno affermò: - Ed io secondo!
Finché le campane suonarono in modo incessante, poche centinaia di Bresciani riuscirono a trattenere l’intero battaglione del generale Nugent per tutto il 26 ed il 27 marzo, nonostante il vivissimo fuoco delle artiglierie del Castello.
Il 28 sembrava dovesse portare alla vittoria bresciana, bastava soltanto che gli abitanti di Sant’Eufemia fossero insorti, ma invece fu un giorno di lutto e di morte poiché gli austriaci, imboscati in un’apparente fuga sui monti, piombarono all’improvviso in massa nel paese e circondarono i Bresciani. Un certo Taglianini fu mandato sul campanile per suonare le campane e quindi richiamare gli uomini alle armi e continuò nel suo compito anche quando gli giunse in faccia una pallottola, finché gli austriaci non salirono sul campanile e lo uccisero. Più di cento cittadini rimasero morti e feriti sul campo.
Il giorno seguente fu relativamente tranquillo. Purtroppo un falso bollettino annunciava una vittoria dell’esercito piemontese e quindi indusse la popolazione a maggiore resistenza, anche se Boifava ed i suoi uomini, a corto di munizioni, si erano ritirati sui monti, privando Tito Speri di un forte appoggio.
Il 30 violenti bombardamenti sconquassarono nuovamente la città, forse per coprire gli Austriaci del battaglione di Nugent che a più riprese tentavano di unirsi con la guarnigione del Castello. Per tutta la giornata, nella zona di Porta Pile e Porta Torrelunga, i Bresciani si batterono accanitamente fino allo stremo delle proprie forze.
Nonostante ciò, all’alba del 31 tutti erano già ai propri posti pronti a sostenere una nuova giornata di lotta. Quel giorno, inaspettatamente, scesero dal Castello due soldati con un proclama firmato dal maresciallo Haynau che intimava alla città ribelle la resa immediata, pena la totale distruzione. Subito si diffusero incredulità e costernazione per l’improvviso ritorno del vecchio e terribile governatore: infatti tutti lo credevano all’assedio di Venezia; invece la notte prima, precipitosamente tornato in città per ristabilirvi l’ordine, era riuscito a penetrare in Castello per la strada del soccorso con un intero battaglione. I cittadini furono rivestiti di sdegno ed ira quando venne letta la fine del terribile proclama: - Bresciani! Voi mi conoscete, io mantengo la mia parola! -. Questa fu la scintilla che incendiò gli animi del popolo che, incurante del pericolo cui andava incontro, rispose con un solo grido: - Guerra! -.
Tutti i Bresciani accorsero a preparare nuove difese, innalzare barricate con carri, mobili e tavoli; perfino il selciato delle strade venne rimosso per farne proiettili che le donne lanciavano dalle finestre. Alle due, allo scadere dell’ultimato, le campane suonarono a stormo per rispondere al tuono delle bombe provenienti dal castello; contemporaneamente le truppe austriache, che erano rimaste in attesa fuori dalle mura, assalirono le porte di Torrelunga, di S.Alessandro, di S.Giovanni e delle Pile. Porta Torrelunga venne fatta saltare, ma Tito Speri ed i suoi uomini , tra il fumo, il fuoco e gli scoppi delle granate, respinsero per più volte il nemico.

 

Intanto un battaglione, sceso dal Castello per contrada S.Urbano, cercava di raggiungere il Broletto ed il centro della città, ma in Piazza dell’Albera trovò ad attenderlo i Bresciani, appostati dietro le barricate che chiudevano ogni sbocco alla piazza. Un violentissimo fuoco di fucili accolse le schiere austriache che si affacciavano sulla piazza, uccidendole inesorabilmente poiché l’angustia della strada e la crescente pressione di quelle che seguivano non permetteva alle prime di indietreggiare e liberarsi. La piccola piazza, ingombra di cadaveri, rimase per un giorno in mano ai Bresciani.
Verso sera le brigate del Nugent riuscirono a sfondare le barricate di Porta Terralunga e di Porta San’ Alessandro, minacciando di penetrare nella città. Per evitare i pericoli della notte nelle vie cittadine venne però ordinato loro di fermarsi e fortificarsi sulle posizioni conquistate.
Per espugnare Brescia si pensò quindi di ricorrere agli incendi: una dopo l’altra le case di S. Urbano e di Porta S. Alessandro vennero date alle fiamme e la notte fu illuminata dal bagliore rossastro del fuoco che si dilatava seminando panico e distruzione. La notte che precedette il 1° aprile fu quindi tragica, movimentata ed agitata dalle urla di terrore, dal crepitare degli incendi, dal crollo delle case in fiamme, dalle scariche delle fucilerie e dal martellare delle campane.
Eppure all’alba ognuno era ancora al proprio posto: al suono incessante delle campane, sotto il gran fuoco delle artiglierie, i Bresciani combattevano con tanto accanimento, furia e coraggio, che se fossero stati più numerosi e meno provati dalle battaglie dei giorni precedenti, per Brescia sarebbe stata la salvezza e la libertà. La loro resistenza contro le forze Austriache, che da Porta Torrelunga cercavano di avanzare per Corso Magenta, fu eroica e disperata: costretti a ritirarsi di barricata in barricata sotto l’incalzare delle truppe del Nugent, a cui si unirono quelle di Haynau provenienti dal Castello, non cessarono di combattere e fecero costar caro al nemico ogni metro conquistato.

Presso San Barnaba, dove la mischia ebbe momenti di terribile violenza e lo stesso generale Nugent venne ferito a morte, i Bresciani ottennero la loro ultima vittoria, slanciati all’attacco con disperato furore, riuscendo ad arrestare per un attimo il nemico.
Ormai non c’era più alcuna possibilità di resistenza contro gli austriaci che avanzavano distruggendo, incendiano e massacrando gli indifesi.
Il cittadino Carlo Ziima fece un gesto estremo: cosparso di acquaragia e incendiato da un soldato, si buttò addosso al nemico costringendolo a morire della sua stessa morte.

Inutilmente i Bresciani si fecero massacarare a Porta Pile, a Porta Bruciata e presso la Chiesa della Carità, finché, per salvare la città, il consiglio cittadino risolse di inviare un rappresentante da Haynau per trattare la resa. Padre Maurizio Malvestiti, accompagnato dal giovane confratello Padre Ilario e da un coraggioso popolano, salì allora verso il Castello, inerme, per tentare di placare il nemico.
Questi accolse la resa, ma non si riuscì a fermare subito la battaglia, sia da parte austriaca sia da parte cittadina.
Giunse a Brescia pure l’esercito del maresciallo Appel dopo aver fatto parte della battaglia di Novara e la città visse un clima di saccheggi e violenza nonostante l’accordo preso per opera di Malvestiti. 800 volontari Bergamaschi tentarono inutilmente di portare aiuto ai Bresciani. Tra il bagliore degli ultimi incendi e dei fuochi dei bivacchi militari, Brescia visse così la lunga notte di agonia che concluse quelle epiche dieci giornate. 

Nei giorni seguenti, ai saccheggi ed alle carneficine dei soldati si sostituirono le feroci repressioni e vendette dell’Haynau e dell’Appel: arresti e impiccagioni colpirono i responsabili dell’insurrezione che non avevano fatto in tempo a fuggire e la città stessa venne obbligata a pagare una forte multa per retribuire le spese dell’esercito dovute all’assedio.
Ad accrescere le sofferenze dei Bresciani, un uragano si scatenò in agosto nella Val Trompia e, nel 1855 pochi anni dopo, un’epidemia di colera devastò la città, causando più di mille morti.

CANOSSI RACCONTA

Canossi racconta in modo particolare le dieci giornate di Brescia nel suo "Esordio alle Dieci Giornate". Tuttavia alcuni particolari e piccoli fatti sono da lui descritti sui personaggi eroici appaiono anche in altre poesie che, sfogliando Melodia e Congedo, appaiono come curiosi particolari riguardo quelle giornate storiche importanti per la brescianità. Ora riporto queste poesie.

UN BEL CASO (che pare un invenzione, mentre è realtà)
dalla passeggiata di Maccheronica Gambara

- E queste son le lapidi ai Caduti
dal Quarantotto in poi con tutti quanti
i suoi cognomi e nomi conosciuti
dalle Dieci Giornate andando avanti.

Non badi se sul marmo ci son tanti
scarabissi pro e contro, sporchi o arguti:
<<Abbasso Galileo! Tutti ignoranti!
- Se vedi Paneroni, lo saluti!>>;

piuttosto faccia caso ad una svista
che mai nessuno ancora s'è accorto,
cioé ch'è stato omesso nella lista,

per qualche distrassione, un certo Morto,
uno dei nostri Martiri più veri,
che il Suo nome si chiama Tito Speri.

 

 

LA LAPIDE A CARLO ZIMA (in via Re Galantuomo)
dalla Passeggiata di Maccheronica Gambara

- Quella lì ... tiri via! ... Ce lo confesso,
può far senza di legger: mangio un gatto,
come si dice, se capisce il fatto.
Dice: <<dato alle fiamme>>: l'avran messo

sul rogo? Ah mai! Cosa sarà successo? ...
Dice che Zima <<uccise>>: quello è un atto
generico. Ma invece Zima a un tratto
branca e stringe il Croato che ci versa

la pece addosso, e dice: <<Con permesso
che bruceremo insieme!>>. E in un minuto
brucia lui e il Croato, e viceversa.

Quest'incendio del mio compatriotto
è del quarantanove ch'è accaduto,
ma l'epigrafe è un mezzo quarantotto.

 

TITO SPERI

– èl mè scüse! – èl gh’ha dit, secònd l’üsanza,
èl bòja ‘n dèl mitiga al còl èl las.
– tràtem dè amico, e mèt èl cör èn pas –
èl ghè rispònt; po ‘l varda ‘n lontananza

come chi spète argü che ria da ‘n viaz
e ‘l slunga j-öcc e ‘l cönta la distanza
e finalmènt èl vèt chè la speranza
chè ‘l ghia ‘n dél cör l’è dré pèt averàs.

Cos’aràl vést? … L’Italia liberada?…
o fòrse la so pòera Fortünina
chè la vigna a compagnàl dè là?

Gh’èra miga dè sul chéla matina,
ma sö la bèla fàcia ilüminada
gh’èra sö ‘l sul dè la felicità.

Po ‘l-ha basat i précc, èl s’è lussat
i guance, e ‘l-è montat söl traböchel
co’ la grazia d’ön spus inamorat
chè va a ‘l-altar a benedì ‘l-anèl.

E, ‘ntat chè ‘l boja ‘l ghè leàa ‘l sgabèl:
<<Signur, vègne con Vò – ‘l-a sospirat –
èn Paradis…>>, e ‘n dèl mancàga ‘l fiat
’l ha serat j-öcc e ‘l-è dientat piö bèl.

La sera, nat zò ‘l sul, gh’è ignit du òm
e i ‘l-ha sotrat còi àlter lé pèr tère
senza crus, senza cassa e senza nòm.

Pò i gha cargat le furche, èl sgabelòt,
le trè còrde, la vanga e la leéra,
e j-è turnacc a Màntoa … e buna nòt!!!