Negli ultimi anni, la realtà scolastica italiana ha subito, nel bene e/o nel male, drastici ed importanti cambiamenti.
La legge 170/2010 ha introdotto nella scuola la nozione di "BES" (Bisogni Educativi Speciali) e di una presa in carico educativa personalizzata degli alunni con difficoltà non basata sulla certificazione di handicap, ma su una diagnosi clinica. Questa e altre recenti normative, purtroppo in troppi contesti scolastici non sono state ben presentate ed apprese. Una situazione abbastanza ambigua invita a riflettere non poco coloro che oggi si occupano di educazione.
Si è giunti a ritenere che ogni alunno può avere delle problematiche più o meno importanti, da accogliere ed accettare, e occorre farlo sentire comunque sereno alleggerendo il suo carico scolastico o dotandolo di strumenti diversi che lo aiutino.
Ad esempio, se un ragazzino fatica a scrivere, gli si può diminuire la quantità di lavori di scrittura rispetto a i compagni, o si può dargli un computer per supportarlo. In questo modo si ritiene di non intaccare, anzi di aumentare la sua serenità ed il suo benessere.
Ma tutto ciò si basa su una visione patologizzante e stigmatizzante dell'essere umano. Nessuno osa chiedersi: "Perché quel ragazzino fatica a scrivere?". Tantomeno ci si chiede: "Come si sente un ragazzo che viene trattato diversamente dal resto della classe?".
Chi lavora sul campo può toccare con mano quanto l'autostima degli studenti della scuola primaria sia vertiginosamente calata negli ultimissimi anni, specialmente di quelli dichiarati D.S.A.
Molti insegnanti e molti professionisti del settore, si chiedono spesso il perché tanti genitori siano restii a rivolgersi a specialisti ... Quanti si mettono nei panni del ragazzino?
E' possibile andare oltre?
Si. E' possibile. A parte certe ipotesi non ancora validate, non è ancora stato trovato uno specifico gene che porti a non riuscire a leggere, a non riuscire a scrivere o a far di conto. Invece vari studi ed approcci psicopedagogici mostrano chiaramente che alla base di determinate difficoltà possono esserci chiare cause e che queste ultime possono essere individuate e risolte con interventi psicopedagogici mirati.
Il ragazzino si deve impegnare a svolgere quotidianamente degli esercizi mirati per un periodo, per qualche mese, ma il lavoro persegue un fine ben preciso: riuscire a fare senza fatica tutto quello che fanno i suoi compagni, nelle stesse modalità e negli tempi dei compagni.
A questo punto vi invito a mettevi nei panni del fanciullo, che si trova in una delle seguenti due situazioni.
1) Lui stesso si accorge di avere delle difficoltà. Queste vengono certificate e dichiarate, le insegnanti lo aiutano con un programma differenziato, strumenti compensativi, ...
2) Lui stesso si accorge di avere delle difficoltà e viene aiutato ad individuarle e capirne il motivo. A questo punto lo si coinvolge attivamente ad affrontarle con un percorso mirato, condiviso, in cui per un certo periodo deve forse avere un carico di lavoro leggermente maggiore, ma presto ne vede i frutti. Man mano il percorso prosegue lui per primo si accorge che il divario con i compagni sta diminuendo: questo è per lui causa di orgoglio, lui stesso sta costruendo il suo futuro.
In quale delle due situazioni si sta coltivando l'autostima? L'educando è un uomo, membro essenziale dell'umanità. La sfida è spesso alla base dell'apprendimento e della crescita.
D'altro canto, io stesso mi son ancora sentito dire da ragazzini con lievi difficoltà, e per questo trattati secondo l'attuale normativa: "Mi sento ritardato come la mia compagna con Sindrome di Down".
Termino questa riflessione con alcune frasi del prof.Angelo Lascioli, docente di Pedagogia Speciale all'Università degli Studi di Verona:
"In che misura un eccesso d'interventismo personalizzato non può escludere, stigmatizzare ed essere vissuto come invasivo se non addirittura come una forma di violenza e quindi di negazione dell'identità da parte dell'alunno che usufruisce di questo trattamento speciale, forse troppo speciale? [...]
In base alla Labbelling Theory [teoria dell'etichettatura] attraverso l'assegnazione di un'etichetta ad una persona, si innesca un processo in grado di trasformare la persona stessa, influenzando la percezione del sé. L'effetto è particolarmente negativo per la persona se l'etichetta che le viene attribuita non è positiva. In questi casi, s'innesta la diffidenza e la stigmatizzazione della collettività, con il risultato di una ristrutturazione della percezione del sé da parte dell'etichettato, che lo conduce progressivamente verso l'isolamento e l'esclusione sociale" (Lascioli A., Verso l'Inclusive Education, Edizioni del Rosone, Foggia 2014, p. 17, 65).
Faberi Matteo
dicembre 2017